Alla fine della quinta elementare ho letto il mio primo romanzo.
S’intitolava: “scappa Bouc scappa”. Una storia di uno stambecco, un bambino e un bracconiere.
Mi era piaciuto talmente tanto che una volta terminato avevo deciso di scriverne uno io di romanzo.
Era estate. Su di un quaderno a quadretti scrissi “caro Sansone” la storia di un cane, un bambino e un pastore sardo.
Oggettivamente non era un granché. Lo diedi a mio padre che me lo restituì corretto. Con le sottolineature in rosso come con i temi.
Piagnucolai nel vedere il mio primo romanzo imbrattato e scarabocchiato.
Non mi persi d’animo.
Dopo ventidue anni, anno più anno meno, mi ritrovo in una libreria, ormai a me cara.
Con tanto di bandana, baffi e occhiali da sole a nascondere occhi lucidi ed eventuali lacrime di commozione, di fianco a me Paola e Rossella con i rispettivi ventri “pieni di vita” a leggere frammenti dell’ultimo mio romanzo pubblicato.
Attorno, un silenzio fatto di respiri distillati, e attorno a questo silenzio, volti di amici affezionati mescolati ad altri volti inediti ai miei occhi.
Le sensazioni sono strane, ma riesco ad afferrare con inaspettata lucidità l’incanto della serata.
Perché scopro e ritrovo, l’entusiasmo nelle parole di chi parla e ha letto il romanzo.
Fa strano sentire che due persone si scrivono messaggi confrontandosi su qualcosa scritto da me, come mi fa strano a fine presentazione appartarmi lontano da chi il libro non l’ha ancora letto con chi invece l’ha fatto, ritrovarmi lì, a parlare ma soprattutto ad ascoltare la loro meraviglia e la loro contentezza.
Il vino non annebbia il pensiero e lucido è il sorriso sulle labbra che riporto a casa.
Ringrazio chi ieri sera c’era e quel bambino che ha preso la penna ed ha iniziato a giocare a scrivere, ormai non so più bene, quanti anni fa, ma ancora non ha smesso.